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Dossier | N. 34 articoli
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Processo all’economia

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Italiaprocesso all’economia

In difesa dei modelli e delle teorie

  • - di Pietro Reichlin

  • 23 ottobre 2017
(Agf)

Le rivoluzioni scientifiche nelle scienze sociali nascono sempre da fenomeni nuovi e dirompenti. L’opera di Keynes è figlia dalla crisi del ’29 e del fallimento del gold standard, la critica di Lucas, le aspettative razionali e l’idea dell’incoerenza temporale delle politiche pubbliche sono nate dalla stagflazione degli anni ’70 e dal fallimento delle politiche keynesiane. Oggi la necessità di una revisione del pensiero economico nasce anche dalla crisi del 2008. Come mai non è stata prevista dalla maggior parte degli economisti? Perché le banche centrali sono costrette a rivedere princìpi e strumenti che sembravano risolutivi ed efficaci negli anni ’90, come l’inflation targeting, e ricorrere a manovre non convenzionali?

Il tema merita analisi approfondite. Ma sgombriamo prima il terreno da alcuni miti. È un luogo comune affermare che le difficoltà di comprendere o prevedere i fenomeni in oggetto siano dovute all’ipotesi di razionalità e alla procedura di analizzare posizioni di equilibrio. Se è pur vero che queste ipotesi o metodologie sono tutte utilmente emendabili e soggette a varianti di grande interesse (come nel caso dell’economia comportamentale), non credo che siano alla “radice” del problema. A rischio di esagerare la mia posizione, vorrei dire che comprendere le crisi finanziarie e le recessioni come un prodotto della razionalità degli agenti economici e di una qualche forma di equilibrio del sistema è esattamente ciò che rende questi stessi fenomeni rilevanti e degni di preoccupazione. Riferendoci ad altri temi, non è forse vero che la mafia e la corruzione sono rilevanti proprio perché fenomeni di equilibrio compatibili con gli incentivi individuali? Chi vive in un ambiente corrotto ha convenienza a non deviare da codici di condotta che consolidano il sistema e lo rendono stabile. Più in generale, la razionalità individuale e l’equilibrio possono produrre risultati inefficienti o subottimali per la collettività (un fenomeno reso rigoroso dall’equilibrio di Nash).

Alcune critiche sono dettate da scarsa competenza. L’efficienza informativa dei mercati è spesso confusa con l’efficienza e la stabilità dei risultati economici. Più semplicemente, essa significa che è difficile fare profitti sulla base dell’osservazione dei dati economici trascorsi. Se ciò fosse possibile avremmo forse evitato la crisi finanziaria, perché gli investitori non si sarebbero fatti cogliere di sorpresa. Purtroppo le bolle speculative, il panico o il contagio sono perfettamente compatibili con l’efficienza informativa. E la corsa agli sportelli o la vendita massiccia di titoli può essere una scelta individualmente razionale, come accade nei giochi di coordinamento. In molti casi, se tutti fanno una cosa, è meglio che la fai anche tu. Un’altra critica ricorrente che, secondo me, manca il bersaglio, sostiene che l’efficacia delle previsioni economiche sia inficiata dalle premesse teoriche degli economisti. In realtà, l’economia serve soprattutto a spiegare fenomeni persistenti e regolari e tentare di calcolare l’effetto delle politiche economiche, piuttosto che prevedere cambiamenti improvvisi. I modelli di previsione economica usati dagli istituti di ricerca sono generalmente a-teorici e puramente statistici. E questo è un grave limite. Ad esempio, oggi sappiamo che l’accordo di Deauville del 2010 tra Merkel e Sarkozy sulla partecipazione dei privati ai rischi finanziari ha contribuito alla crisi dei debiti sovrani europei. Ma come potremmo mai incorporare ex-ante questo tipo di eventi nei modelli economici?

Detto ciò, concordo in pieno con chi sostiene che la macroeconomia abbia riposto eccessiva fiducia nella capacità predittiva e normativa di un insieme di modelli che trascurano due fenomeni rilevanti: l’eterogeneità dei soggetti economici e le imperfezioni dei mercati finanziari. Una parte della professione ha semplicemente ignorato queste cose e creduto che l’intermediazione finanziaria fosse un “velo”. Ma occorre fare attenzione a non estendere questa critica all’insieme della ricerca accademica. Da lungo tempo i modelli di equilibrio “perfetto” di Arrow e Debreu occupano un ruolo del tutto marginale nel bagaglio dell’economista medio. Essi sono poco utili perché ipotizzano che i soggetti possano assicurarsi contro ogni stato del mondo, che esista un mercato per ogni bene, corrente e futuro, e che i debitori non possano fallire.

Ma chiunque abbia dimestichezza con le riviste accademiche più importanti sa bene che esistono strumenti avanzati, e ben solidi, per comprendere le crisi finanziarie e i difetti della regolamentazione. Ad esempio, i modelli di agente-principale, quelli con informazione imperfetta o con rischio morale, i modelli in cui i fallimenti dei debitori derivano da incentivi perversi consentono di comprendere molti fenomeni reali, come la corsa agli sportelli, le bolle speculative, la diffusione d’informazione incorretta (“cascate informative”). E nessuno di questi modelli esclude la razionalità degli individui. Con ciò non voglio dire che sia già stato scritto tutto ciò che serve, ma la crisi del 2008 e del debito sovrano europeo del 2010 sono facilmente comprensibili se si sfogliano le riviste scientifiche degli ultimi trent’anni. Anche nell’ambito della macroeconomia, è difficile trovare oggi su una rivista importante contributi che non incorporano, in un modo o nell’altro, eterogeneità degli agenti, fallimenti del mercato e problemi informativi. Un approccio che è ormai molto esteso anche negli uffici studi delle banche centrali.

Occorre quindi domandarsi perché queste ultime, e le altre istituzioni che presiedono alla definizione delle politiche economiche, non hanno recepito a sufficienza insegnamenti e strumenti che potevano consentirci di prevenire (se non prevedere) la crisi finanziaria, o almeno rafforzare la regolamentazione. A questo proposito penso sia utile rileggere l’intervento di R. Rajan a Jackson Hall nel 2005 (poco prima della crisi) e il dibattito che esso suscitò tra economisti e policymakers. Forse si capirebbe che la scienza economica è uno strumento che può essere usato male, qualche volta a scopo politico, o per difendere rendite di posizione. Proteggiamola da chi ne fa cattivo uso e anche da chi la conosce superficialmente.

© Riproduzione riservata

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